Di Rosanna Milone
Violenza sulle donne. Salvatore Brizzi una voce fuori dal coro
A proposito di violenza sulle donne, desidero riportare una voce fuori dal coro: quella di Salvatore Brizzi, scrittore e conferenziere sui principi del lavoro su di sé.
Una voce che può dare fastidio come prima reazione, ma che -a mio sentire- rientra in quelle voci che, alla fine, se fermi l’istinto, gestisci l’emozione e ascolti l’intuito, possono farti crescere. Come quando una persona che ti ama veramente ti dice che puoi fare di meglio, invece di compatirti se è andata male. Ci innervosisce, adoriamo essere compatiti!, ma io credo che il vero amore sia anche rischiare di essere odiati pur di aiutare a crescere.
Leggiamo, dunque, cosa scrive nel suo blog, nell’articolo del 21 Novembre: “L’omicidio di Giulia e il lavoro su di sé”.
“(…) Gli psicologi sgomitano per diffondere il profilo psicologico del ragazzo omicida, ma nessuno si interessa del profilo psicologico della vittima, quasi fosse un agente totalmente passivo all’interno della vicenda. (…) Le donne in particolare, devono capire che sono responsabili di quanto accade loro. Se non cambia il loro approccio alla realtà, saranno sempre vittime che si lamentano e hanno paura del mondo. Se vogliono liberarsi, devono educarsi ad acquisire potere, e il primo passo è la consapevolezza di essere pienamente responsabili per quanto accade nella propria realtà. (…) Questi omicidi, infatti, non c’entrano nulla con il “patriarcato” o il “maschilismo” o l’energia maschile in generale, tutt’altro, sono sintomo di un’energia maschile repressa e isterica, tipica di questi tempi in cui i guerrieri sono latitanti. Quando l’uomo è veramente uomo, non uccide la donna, ma, allora bisogna anche dire…quando la donna è veramente donna, non si mette nella situazione di essere uccisa da un uomo.”
Cavolo se dà fastidio. Ma, prima di reagire, riflettiamo ancora un attimo insieme.
ABBIAMO CHIESTO AI GIOVANI DI PARLARCI DELLA RABBIA
Noi, che lavoriamo tutti i giorni con centinaia di ragazzi, abbiamo chiesto loro cosa pensino del sentimento della rabbia. E della relazione con colui che la precede: il dolore. E con colei che ne consegue: la violenza. Perchè se vogliamo che i femminicidi finiscano, è con loro che dobbiamo parlare, è dai giovani che parte il vero cambiamento: basta far sentire che un futuro diverso è possibile, questa che viviamo oggi non è l’unica realtà.
Gli intervistati vanno dai 12 ai 20 anni, questo ci permette di valutare come cambino le risposte a seconda della fascia d’età: 12/14, 15/17 e maggiorenni. Abbiamo anche sottoposto maschi e femmine a domande in parte diverse e altre in comune per studiare la differente percezione della tematica.
A seguire quanto raccolto dallo psicologo del centro studi di Fondazione Carolina, Marco Bernardi.
LA SOSTANZA E L’APPARENZA NELLA GESTIONE DEL DOLORE
Rispetto all’accettazione del dolore, la maggior parte dei ragazzi maschi si sente costretto a dare di sé un’immagine di forza che non corrisponde alla propria realtà interna: il modello del maschio forte, che non mostra il suo lato emotivo e le sue fragilità pena essere considerato un debole è ancora presente tra i giovani.
Il dato interessante è che questa tendenza cresce con l’aumentare dell’età: la società richiede ai maschi di diventare sempre più controllati sulle emozioni (e mostrarsi forti) al crescere dell’età. Se ai più piccoli è “concesso” di avere una vita emotiva e di farla vedere, ai più grandi è richiesto di non mostrarla per non mostrarsi deboli.
Il 90% delle ragazze intervistate ha confermato di percepire nei maschi questa tendenza a mostrarsi più forti di quello che sentono e di mascherare il loro lato emotivo.
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Ragazze che confermano di percepire nei maschi il controllo sulle proprie emozioni
Abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarci come vivano sofferenza e rabbia. Pur dichiarando di sapere che la rabbia abbia origine in un dolore non affrontato, non viene condivisa come emozione e viene invece vissuta come qualcosa da sfogare in attività fisiche; a conferma delle difficoltà di espressione dei sentimenti, in molti hanno anche dichiarato confermato che spesso succede di avere voglia di piangere ma poi si blocchino nel farlo.
Ma ci ha colpito anche il dato delle ragazze perchè in percentuale non si discosta molto da quello dei maschi: anche le ragazze si trattengono dal piangere. Questo ci permette due riflessioni: da un lato smonta lo stereotipo delle ragazze come quelle che sarebbero più libere di esprimere le loro emozioni, ricordandoci che anche lo stereotipo positivo è pur sempre un modo limitato di guardare la realtà; dall’altro lato, ci fa chiedere se il modello del maschio “forte” non stia condizionando la società in generale e non solo i maschi.
La violenza verbale e la paura della violenza
Abbiamo anche indagato quanto fossero consapevoli della loro aggressività verbale verso le ragazze e qui emergono due dati importanti: da un lato, quasi la metà del campione dice di aver ferito una ragazza con le proprie parole, dall’altro questa consapevolezza aumenta con il crescere dell’età. Tra i più piccoli è alta la percentuale di chi non sa dire se è successo o no, mentre questa diventa zero nei giovani adulti in cui la percentuale di chi ha ferito si aggira intorno al 90%.
L’aggressività verbale nei confronti delle ragazze sembra essere molto presente e la sola consapevolezza del fatto di poter ferire non sembra un buon deterrente all’agire in senso aggressivo.
Abbiamo poi chiesto alle ragazze quanto fossero condizionate dalla paura che un maschio potesse fare loro del male. I dati sono qui piuttosto eloquenti: quasi il 40% delle femmine dichiara di rinunciare a fare alcune o molte cose -anche semplicemente uscire da sole la sera- di ciò che vorrebbero proprio a causa della paura della violenza maschile.
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dei ragazzi intervistati ha ferito una ragazza con le proprie parole
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ragazze che rinunciano a fare qualcosa per paura della violenza maschile
La violenza in famiglia
Abbiamo chiesto se i maschi in famiglia siano per gli intervistati un buon esempio di gestione della rabbia e qui abbiamo un dato piuttosto disomogeneo: per i ragazzi lo sono nella maggior parte dei casi, mentre per le ragazze no. Questo è un dato di per sé interessante perché evidenzia una differente sensibilità rispetto a ciò che dai due generi viene definita “gestione della rabbia”.
Dai nostri dati emerge che 1 intervistato su 3 abbia assistito a scene di violenza di maschi verso le femmine, mentre 1 su 4 ha assistito a scene di violenza di femmine verso maschi: il dato è significativo di un fenomeno, quello della violenza maschile, molto presente -come già sappiamo dai altri dati- ma ci interroga anche in generale su quanto la violenza sia diffusa nei rapporti tra le persone, riportando la responsabilità educativa non solo alla famiglia ma anche alla comunità educante.
I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI DI GENERE
Abbiamo poi indagato alcuni dei pregiudizi e degli stereotipi di genere che sappiamo essere associati all’espressione di una mascolinità tossica e anche alla violenza di genere.
Soprattutto nei maschi, sembra radicata l’idea che la femmina sia da proteggere e che questo lo debba fare un maschio: stereotipo molto pericoloso perché pone la femmina in una condizione di subordine rispetto al maschio, con tutto quello che ne consegue anche a livello di sottomissione.
COME PREVENIRE LA VIOLENZA, DI GENERE E NON?
Torniamo quindi a noi, alle parole di Brizzi e poniamoci domande costruttive.
In quanto educatori, ci dobbiamo chiedere cosa ci convenga fare: attaccare il carnefice o cercare di educare ad una sana espressione delle proprie emozioni?
Compiangere la vittima, o cercare di accompagnare le ragazze ad una sana consapevolezza della loro forza che le liberi dal bisogno di protezione?
In una società sana ci si protegge reciprocamente, punto. Piccoli verso grandi, donne verso uomini. Non per controllo tossico ma per convivenza sinergica.
Marco Bernardi, psicologo del Centro Studi di Fondazione Carolina, conclude “la sensazione è che, finché non ci occupiamo seriamente di costruire una socialità sana e solidale difficilmente possiamo estirpare certi stereotipi. Gli stereotipi servono in un mondo dove siamo da soli e ognuno se la deve cavare da sé per difendersi, noi siamo i giusti e loro gli sbagliati. (…) E magari, di fronte a certi eventi traumatici, meno parole per denunciare e per condannare ma provare a stare vicino a chi è genitore, figlio, coniuge, fidanzato per ascoltare e parlare del dolore e della sofferenza con delicatezza e rispetto.”